IN QUIETE
25th September – 7th October 2012 | Bagnacavallo, Italy
in quiete
A guardarle così, ne rimaniamo subito rapiti. Queste belle opere di Pierpaolo Andraghetti si rivelano subito per la loro freschezza, per il rigore esecutivo e per l’immediatezza di valori e significati di cui si fanno portatrici. Per lo più si tratta di ritratti, una delle forme più antiche di rappresentazione artistica, un genere che certo ha meno bisogno di intermediazione per essere compreso, perchè da sempre ne conosciamo la forza generatrice, che altro non è che l’ancestrale desiderio, l’ambizione o la necessità di rappresentare e tramandare l’immagine umana. E Pierpaolo, a pochi anni dal suo debutto sul palcoscenico dell’arte, mostra chiaramente di aver scelto questo come suo privilegiato terreno di ricerca, e lo fa a ragione, perchè in queste prime, preziose, testimonianze del suo lavoro ci regala senza dubbio grandi prove di abilità ritrattistica.
Attenzione però a non commettere quello che sarebbe, davvero, un errore di valutazione imperdonabile: qui non si tratta di uno di quegli artisti della prima ora che si presta alla ritrattistica per mancanza di argomenti. La sua proposta è molto più sottile. Sotto le mentite spoglie di un’arte così immediata e rassicurante come è la pittura di ritratto, Pierpaolo gioca, sornione, con la nostra psiche. Lo fa senza che noi, consciamente, ci si avveda di nulla. E se anche ce ne dovessimo accorgere, lui stesso, dietro quell’aria apparentemente tranquilla e inconsapevole, sembra volerlo, almeno apertamente, negare. Si avverte, infatti, come una strana vertigine osservando una di queste opere sapendo di osservare un ritratto, senza però conoscere nulla del soggetto rappresentato. Un qualcosa, per dirla con le parole di Walter Benjamin, “che non può venir messo a tacere e che inequivocabilmente esige il nome di colei che lì ha vissuto, che anche nell’effigie è ancora reale e che non potrà mai risolversi totalmente in arte”.
In un modo o nell’altro si è sempre coinvolti di fronte all’immagine, seppur artefatta, di una persona. Lo è in primo luogo l’artista, la cui abilità nel captare e raccontare la personalità del suo modello non è solo un dono, ma anche il frutto di una precisa e lunga ricerca. Quando cade il filtro tra pittore e soggetto, allora il ritratto si fa magia rivelatrice dell’essenza, al di là delle manifestazioni esteriori, al di là della fisicità e della realtà oggettiva. Pierpaolo, come molti altri ritrattisti prima di lui, scardina questo diaframma ricercando sempre un contatto diretto col suo interlocutore, e per meglio raggiungere questo obiettivo spesso concentra la sua attenzione su soggetti con i quali egli ha acquisito una qualche forma di intimità. Un amico, un parente, la compagna. In ogni caso ricerca in essi quell’attimo di rilassamento, di quiete, che è poi il momento in cui si sprigiona quel “raggio verde” portatore dei messaggi subliminali del corpo. Ecco perchè questa schiera di umanità che vediamo qui rappresentata in quieto atteggiamento – ora sdraiata su un divano, ora semplicemente colta in posizione assorta – è solo uno schermo che ci prefigura molto altro. Quanti e quali altri Io ci sono nelle persone oltre all’apparenza che solitamente mostrano? Perchè noi stessi, di fronte alla nostra effige ritratta in pittura o in fotografia, ci riscopriamo spesso impreparati e turbati di fronte ad un’immagine che credevamo di conoscere?
Diviene a questo punto naturale chiamare in causa le teorie che associano il fenomeno del ritratto al concetto del doppio, dell’altro Io. In un noto studio Otto Rank ha modo di affermare che sin da quando il primo uomo ha tracciato una linea intorno alla propria ombra “l’immagine riprodotta è ritenuta un sostituto di una persona raffigurata, in sostanza un suo doppio”. Se è vero che da sempre “gli uomini vedono nell’ombra la loro anima”, a maggior ragione questo vale per la propria immagine riflessa. Come non pensare alle estreme riserve, se non al rifiuto, con le quali molte popolazioni primitive si approcciano al ritratto fotografico? Ce lo suggerisce Sigmund Freud: l’emergere improvviso del proprio doppio è un’invasione dell’in-conscio nel campo del conscio, o come ci dice Pierpaolo con la sua pittura, dell’in- quietudine nel campo di un’apparente quiete. E’ una sorta di “ritorno del rimosso” che può anche assumere i tratti del demoniaco perchè, a ben vedere, è “il manifestarsi dell’angoscia della morte”.
In questa interessantissima mostra di Pierpaolo Andraghetti si intrufola così, inaspettatamente ma non a caso, una ragazza che si intrattiene ripetutamente con uno scheletro. Come in un estremo paradosso, essa riversa tante sensualissime effusioni (danze, coccole, abbracci) su ciò che più di ogni altra cosa rappresenta la morte. Ad un primo livello interpretativo l’artista sembra giocare con la dicotomia apparenza esteriore (vanitas) / struttura interiore (veritas); la stessa riflessione l’autore lascia che ci si insinui offrendoci la possibilità di ruotare intorno ad alcuni dei suoi ritratti e di coglierne così l’impronta, l’ombra essenziale, che vi sta dietro. Ma a ben guardare, questo gran ballo tra lo scheletro e la ragazza rappresenta simbolicamente ciò che per Pierpaolo è produrre un ritratto, vale a dire un baluardo contro la scomparsa dell’Io, un esorcismo, un’energica smentita del potere distruttivo della morte.
Diego Galizzi